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Lunedì 7/12/09, Michele ed io abbiamo sceso la seconda ed ultima parte del Vallone Porto (Positano – Costiera Amalfitana), cioè quel tratto che da quota 500mt (il sentiero basso degli dei) arriva praticamente a mare.

La concatenazione Porto alto, Porto basso, con i suoi 800 metri di dislivello rappresenta a mio avviso il più bel percorso torrentistico della Campania (superato forse solo dal Vallone dell’Inferno sul Cervati – Cilento), una piccola Val Serviera campana.

Fossile nella prima parte, quanto attivo nella seconda, alimentato da sorgenti perenni che emergono tra gli strati di calcare.

Le due parti accomunate da un meandreggiamento semi-ipogeo scavato nelle fasce calcaree alte ciascuna trecento metri, e che supera per metà scavandovi nel ventre, e per la seconda metà emergendovi con calate aeree.

Avevamo qualche dubbio sull’altezza della cascata in uscita dal semi-ipogeo della seconda metà, non si capiva esattamente da quale punto della parete saremmo sbucati, ma valutavamo all’incirca in 70, 80 metri massimo l’altezza della calata.

Un secondo elemento di dubbio era la portata; volevamo avere una valutazione più esatta della portata dell’acqua nel tratto stretto e meandreggiante, perché all’incognita dell’esplorazione non volevamo si aggiungesse anche l’incognita della portata, che avrebbe aumentato la complessità tecnica della progressione oltre il limite del ragionevole dubbio intrinseco nello scendere un itinerario non conosciuto.

Per sciogliere quest’ultimo dubbio abbiamo quindi pensato di fare una deviazione (avevamo una sola autovettura da lasciare in corrispondenza del ponte dell’entrata intermedia) e di risalire fin dove possibile il torrente dall’uscita, per avere una diretta valutazione della portata.

Durante questa perlustrazione abbiamo incontrato il ‘genius loci’.

Finora non ho mai dedicato una nostra discesa ad una persona, ma in questo caso devo fare un eccezione, perché mai come ora trovo la cosa appropriata.

Non è quasi mai possibile identificare un luogo con una persona, magari con una specie animale o con una pianta sì, ma con un essere umano quasi mai.

Ma se scopriste che un eremita artista vive all’interno di un canyon da quasi quarant’anni ? Se scopriste che la sua vita è dedicata a preservare l’integrità del luogo, andando anche contro una comunità locale che per quattro soldi si svenderebbe (e si è iniziata a svendere) un tesoro naturale? Se scopriste tramite la sua bocca che nel vallone vive la salamandra dagli occhiali e l’antichissima felce pteris vittata, relitto dell’ultima glaciazione?

Scoprireste anche che esiste nel vallone un rudere settecentesco con tanto di fontana ornamentale, e che è assurdo il solo pensare di trovare qualcosa del genere in un bosco primordiale (è come trapiantare Villa d’Este nella foresta amazzonica). Pensereste anche voi che è assurdo vivere in una valle chiusa attorniato da pareti alte trecento metri, dove l’occhio non riesce a spaziare in senso orizzontale, e dopo uno due giorni verreste colti da un senso di claustrofobia.

E invece tutto questo è possibile; l’eremita, superata l’iniziale comprensibile diffidenza, si mostra più accogliente ed umano di un cittadino da condominio alveare, categoria alla quale io (e milioni di miei simili) appartengo.

Ci invita dentro casa sua. Per casa ovviamente non si intende casa in senso proprio di edificio in muratura, ma di spazio aperto con attiguo orto e sullo sfondo una sorta di tempietto buddista (che funge anche da riparo notturno e da libreria), nello spazio aperto si articola anche un sistema idrico costituito da canali aperti e vasche a caduta, relitto probabilmente della fase settecentesca.

Lo spazio aperto, escluso l’orto e la zona tempio è in balia di un branco di cani, ne ho contati all’incirca tra i venti ed i trenta. Parlare in mezzo ai cani risulta difficile, il branco ondeggia e si muove attorno a noi, ci sono precise gerarchie sociali, per cui gli elementi che si avvicinano troppo a noi vengono redarguiti dagli individui dominanti che invece pretendono un posto in prima fila. Il fine di quell’ondeggiamento è per noi chiaro, il panino che io ho in mano e l’arancia che sta smozzicando Michele sono un motivo più che sufficiente per destare il loro interesse, in un equilibrio instabile con la devozione per il loro padrone che gli impone di frenare i loro istinti.

Ne farà le spese lo zaino di Michele, dimenticato per qualche secondo per terra, verrà ‘segnato’ da un paio di loro.

Torniamo infine al torrente. Rassicurati sulla portata, addirittura inferiore a quella trovata un mese e mezzo fa, nonostante le pioggie che si sono nel frattempo abbattute, testimonianza del fatto che il tempo di attivazione delle sorgenti è lento e dilazionato.

L’artista-eremita, informato della nostra intenzione di scendere il vallone partendo da sopra la fascia di roccie che ci sovrasta, trasecola.

Mi immagino i suoi pensieri:

Per quarant’anni quelle rocce sono state il suo limite fisico, la demarcazione tra il suo mondo e l’aldilà, oltrepassare quel limite è una profanazione, è l’equivalente simbolico del tornare in vita dopo l’essere morti, del tornare al-di-qua dopo essere stati al-di-là.

Per di più questo passaggio avverrebbe lungo il corso delle acque, cioè l’elemento che dà vita al suo mondo; che alimenta le piante e le felci del bosco, che dà riparo ed habitat di riproduzione alle salamandre occhiate, che genera quelle belle colate di capelveneri e muschi, che alimenta le sue fontane a caduta ed irriga il suo orto.

Ed invece no: ci scruta con i suoi occhi profondi, le cui forme sono disegnate ed allungate da una matita da trucco (ho pensato, si trucca ogni giorno nonostante non veda gente da chissà quanto tempo), e ci chiede soltanto se saremo rispettosi dell’ambiente.

Michele prontamente risponde: ‘Porteremo via soltanto le nostre foto’.

E’ sufficiente. La sua fronte accigliata si apre, la bocca si scioglie in un sorriso: ci ha riconosciuto come esseri buoni, non come profanatori, come rispettosi della natura. Siamo i benvenuti; abbiamo il suo assenso.

Lo spirito del luogo si è aperto a noi, da questo momento niente potrà più accaderci e niente dovremo più temere.

Possiamo iniziare la nostra discesa …


2 commenti

Dino · 24 Marzo 2021 alle 22:04

Tra le tante informazioni, indicare che la forra è stata ridiscesa in prima esplorazione dai cinque ragazzi del CAI Napoli nel 1991, non sarebbe stato male…
Con affetto
Uno degli apritori

    andreapucci · 25 Marzo 2021 alle 01:15

    E perché dovrei citarti? Dovessi contare le volte che una forra da me esplorata è stata pubblicata su un libro, recensita su un blog o su un social network, senza essere citato, perderei il conto, e non me ne sono neanche mai rammaricato. I vostri nomi già accompagnano la scheda del Vallone Porto sul sito di Angileri, sul forum Aic e sul bollettino CAI, fonti molto più seguite ed ufficiali di questo semplice blog personale, che ha un fine molto più basso: riportare le impressioni pensonali durante le mie scorribande nella natura. Quindi puoi stare ugualmente sereno.

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