Nel post precedente, parlavo delle motivazioni che mi spingevano all’esplorazione, parlavo di una colossale frana che ingombrava i miei incubi, e che rappresentava la prossima misteriosa creatura che dovevamo affrontare.

Questo incontro ravvicinato è già avvenuto, appena sabato notte, quando arrivati in costiera amalfitana, studiamo l’uscita della forra, affacciati dal ponte del ‘sentiero basso degli Dei’.

Già questo primo approccio, nel buio, ci convince che la creatura che dobbiamo affrontare ha qualcosa di speciale, il che ci crea un sentimento misto di paura e fascinazione: il letto del torrente non è appena sotto al ponte, come la vegetazione fa credere, ma dai 50 ai 100 metri più basso, tra due strette pareti.

Michele ed io ci guardiamo l’un l’altro: e da lì sotto come usciamo? Poi nel buio scorgiamo una traccia andina che sfrutta una cengia ed arriva sul letto del torrente in corrispondenza di una captazione.

La mattina dopo (e 30 Km di navetta dopo), ci apprestiamo sul sentiero verso l’attacco, superiamo impensieriti la frana pensile che si è portata via anche il sentiero e siamo al primo salto.

Si và, dopo che la prima doppia viene recuperata, abbiamo una sola direzione per l’uscita, il ponte, 500 metri più in basso, ad un solo chilometro di distanza in linea d’aria.

L’aria di forra vera la si odora sin dalla partenza, le pareti verticali ai nostri fianchi si innalzano da subito, in una stratificazione di bianchissimo calcare compatto, la luce si affievolisce, e nonostante le ore del mattino avanzino, la luce si mantiene quella di un tardo pomeriggio.

Raggiungiamo la frana, che è arrivata fin dentro la forra, scendiamo per parecchie decine di metri su clasti enormi male appoggiati, fin quando le pareti si restringono, ed un enorme masso funge da tappo alla colata di sassi, da qui in poi è tutto pulito.

La creatura si disvela ai nostri occhi per tutta la sua maestosità, una piccola silenziosa Val Serviera si apriva sui fianchi dei Lattari, e nessuno se ne era mai accorto.

Anzi non proprio nessuno, troviamo tracce dei primi discesisti, speleologi molto probabilmente, per il tipo di armo, non meno di dieci anni fa.

Ci chiediamo come è possibile che un gioiello del genere sia rimasto conosciuto tra pochi adepti e poi evidentemente dimenticato.

Per noi comunque cambia poco, esplorazione o riesplorazione che sia, non ci toglie il senso della scoperta.

La forra come vi dicevo si disvela nella sua maestosità, l’ambiente ha le caratteristiche di un ipogeo, ma scoperchiato; usciamo da un corridoio a salti, su uno spalanco di una cinquantina di metri, tra pareti di centinaia di metri che si innalzano a strapiombo, tra colate di stallattiti e rampicanti che sfidano la gravità per andarsi a cercare la luce, fonte di vita per ogni creatura.

Stiamo ad appena 300 Km da casa, ma sembra di stare dentro un sotano messicano.

L’ambiente ipogeo prosegue, fin quando vediamo un corridoio buio di pareti illuminato in fondo dal sole, cos’è?

E’ la confluenza con il ramo destro, che intercettiamo con un salto di oltre cinquanta metri, in una vallata chiusa che sembra un pezzo di foresta strappata alle amazzoni e trapiantata qui.

Proseguiamo affondando i piedi nel sottobosco, non si riesce a vedere il terreno su cui poggiano.

Continuiamo a scendere fin quando intercettiamo un riparo di animali ed un sistema di teleferiche per il trasporto del legname, il cavo spicca il volo verso il basso, cinquanta metri più sotto, il fondo non si vede ma deve essere più o meno alla stessa altezza dei cavi.

Macché! Come scendo vedo i cavi volteggiare a mezz’aria, il fondo molto più sotto, ho due sacche da cento metri di corda ciascuna: il dubbio sorge, basteranno?

Un enorme sollievo mi prende quando vedo la sacca atterrare settantacinque metri più in basso, la corda basta.


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