Proseguo sul mio blog un ragionamento che ho iniziato in altra sede.

In ogni attività sportiva la tecnica tende ad essere vista come un fine, e non come un mezzo.

Ma la tecnica deve essere uno strumento non un fine,
come dice Wittgenstein "come una scala da usare per salire più in alto e poi gettare via".

Mentre vedo che per alcuni di noi non è così: per un principiante, in qualsiasi disciplina, la tecnica è un fattore fondamentale, acquisirla è necessario per poter praticare l’attività. Ma una volta acquisita, molti si dimenticano di gettare via la scala, la tecnica rimane per loro sempre il fattore predominante, e non capiscono che è uno strumento che, una volta acquisito, gli permetterebbe poi di guardarsi attorno e di vedere cose che prima non si potevano permettere perché assorbiti dalla attività dell’apprendimento. Una volta acquisita, non è più necessario che sia ancora il fine della pratica sportiva.

Anche in natura la scala viene gettata via: la neuropsichiatria ha mostrato che durante i processi di apprendimento, nel cervello umano, vengono sollecitate le zone del cervello centrale, nella quale le attività apprese sono coscienti e volontarie. Una volta che l’apprendimento è terminato, vengono liberate le zone del cervello centrale, per fare posto ad altre attività coscienti, e tali processi vengono mano mano spostati nel cervelletto, dove non sono più coscienti e sono molto più veloci ed efficienti.

L’esempio classico è quello della scuola guida: l’allievo che sta imparando a guidare, pensa esattamente ogni mossa che deve fare – abbassare la frizione, scalare la marcia, dare gas, rialzare gradualmente la frizione – ogni singola azione viene da lui pensata coscientemente, ed è totalmente assorbito dalla sequenza degli atti, che segue coscientemente, tanto che spesso riesce a seguire solo quello e non altro – come guardare la strada!!!

Il guidatore esperto invece guida senza pensare alla sequenza di movimenti che compie, tanto che li effettua senza l’attività della coscienza, e può pensare tranquillamente ad altro, e nonostante non li pensi, è molto più preciso e veloce nell’eseguirli.

Il centro di controllo dell’attività si è spostato dal cervello al cervelletto, è diventato da cosciente ad incosciente, da lento e macchinoso a veloce e preciso, la natura ha gettato via la scala e permette alla nostra attività cerebrale cosciente di dedicarsi ad altro.

Nell’attività sportiva invece, molti praticanti, continuano a porre la tecnica come elemento principale della loro attività, si crea una figura di ‘perpetuo istruttore’, verso di sè come verso gli altri, che focalizza sempre l’attenzione su come realizzare un certo passaggio, quale tecnica mettere in pratica, cosa provare in quest’occasione, ecc.

L’elemento tecnica è importante, ma a mio avviso deve essere il mezzo per praticare al meglio l’attività sportiva, non diventarne il fine.

Il discorso a mio avviso si deve ribaltare.
La risposta alle varie domande: cosa mi può permettere di scendere in sicurezza questo canyon? Come posso economizzare sul peso del materiale senza che venga meno la sicurezza? Ed altre che vertono su come migliorare l’attività.
La risposta, come dicevo, è di pertinenza alla tecnica.

La tecnica deve essere la risposta a tali domande, non sostituirsi alla domande stesse.

Qualche anno fa Michele ed io, abbiamo iniziato a porci delle domande su come migliorare la nostra attività (Michele per la verità aveva iniziato a porsele già prima di me):

Se il fattore di rottura delle corde è dovuto statisticamente più allo sfregamento che al carico, e se lo sfregamento è dovuto alla elasticità, perchè non dotarci di corde più rigide?

Una corda più rigida, rispetto ad una più elastica, a parità di  carico di rottura, avrà un fattore di caduta più basso. Qual’è il fattore di caduta limite accettabile per la nostra attività?

Il problema nostro più grande, subito dopo la sicurezza, è il peso. E’ possibile avere materiali più leggeri?

Scendendo in corda doppia, l’altezza massima scendibile è la lunghezza minore tra le due corde. Come sfruttare la lunghezza totale delle corde?

Queste domande avevano in realtà a monte un’altra origine, con Michele abbiamo iniziato a fare squadra dal 2003, da allora la nostra attività esplorativa, assieme, è stata molto assidua; ma abbiamo sempre avuto un piccolo problemino, siamo pressocchè sempre stati in due.

Due persone significa che tutto il materiale necessario per una progressione esplorativa, che è tanto, pesante e voluminoso, è da dividersi tra due.

Diveniva perciò di fondamentale importanza ottimizzare tale materiale; portarsi ad esempio due corde (una 50m ed una 150m), significava non poter utilizzare la 50m nella verticale più alta, ed era paragonabile ad avere solo una 150m. D’altra parte, portarsi solo una corda (la 150m), significava non avere la corda di riserva ed essere impacciati nei salti più bassi. Ci serviva una tecnica che ci permettesse di utilizzare il metraggio pieno, e poter magari scendere un salto da 100m con le due corde.

Chi ha pratica di discesa su corda doppia sa che il nodo di giunzione tra le due corde, deve essere sempre a monte del discesista, e che è praticamente impossibile passare con il discensore tale nodo, a meno di non essere costretti a fare passaggi artificiosi con l’uso dei bloccanti. Il nodo vicino all’attacco dell’armo è insomma considerato un assioma al pari degli assiomi euclidei.

A noi serviva o abbandonare la tecnica della corda doppia, oppure, se volevamo mantenere l’uso della corda doppia (come volevamo), trovare il modo di passare il nodo di giunzione.

Un altro problema da risolvere è il seguente: durante l’esplorazione, si tende ad essere parchi con l’attrezzamento artificiale, si tende dove possibile ad utilizzare armi naturali (alberi, clessidre) o a concatenare più salti, insomma si usa il trapano solo lo stretto indispensabile. Questo comporta che gli attacchi spesso sono arretrati, perché gli alberi non sono quasi mai nella posizione ideale, la corda struscia in più punti, e quindi tende a sfregare durante la discesa, ed in più il recupero può essere difficoltoso.

Questo problema si è presentato soprattutto durante l’apertura del Gafaro a Nebbia (vedi post http://andreapucci.satellitar.it/?p=10 ), allorquando ci trovammo difronte a qualcosa come una cinquantina di salti, certo non tutti da scendere esclusivamente con la corda (alcuni disarrampicabili, con attenzione), non tutti di grossa altezza, non tutti molto distanziati l’uno dall’altro. Ma togliendone anche una ventina dal computo, restano in ogni caso da armarne una trentina. Armare trenta salti con il trapano, significa non essere certi di uscire in giornata, significa non essere sicuri che le batterie reggeranno fino alla fine (ci è capitato che ci abbandonassero durante l’apertura di un’altra forra, il Vallone dell’Inferno, Cilento), significa tenere in conto un pernotto (quindi altro materiale, altro peso da portare). Risparmiare sull’armo artificiale significa poter essere più veloci ed avere la garanzia di poter uscire in giornata. Ciò a sua volta è possibile al prezzo di poter far toccare la corda in più punti, senza problemi, e di poterla recuperare nonostante strusci e si possa accavallare.

Ma il problema più grande, probabilmente maggiore dei precedenti, è il peso dei materiali. Per farlo capire meglio devo raccontare la seguente storia, per bocca di Michele; siamo nel Vallone di Erchie, Costiera Amalfitana:

"…E finalmente sei sul posto. Scendi dalla macchina, dividi il materiale da portare su, lo metti nello zaino, ti metti lo zaino in spalla …

E ti viene un accidente … quello non è uno zaino, è un macigno! Non va. La salita sembra tutta al sole, non possiamo portarci su tutta questa roba … ma cosa lasciare? A cosa rinunciare? A tutto il superfluo, ovviamente: la macchina fotografica (ecco perché qui non vedete nessuna foto!) un po’ d’acqua (forse soffriremo un po’ la sete, ma pazienza!), i cordini … e prendiamo la muta leggera, che un po’ di freddo non ha mai ucciso nessuno!

Ma lo zaino è ancora troppo pesante, e decidiamo di portare le corde corte. E dopo qualche ora sono dispiaciuto per questo, perché il salto più alto è veramente alto, e le corde non arrivano in fondo. Dobbiamo così scendere in due tiri, fuori dall’acqua.

Ammiravo la bellissima e tranquilla cascata dal basso e mi dicevo sconsolato: che bello sarebbe stato scendere a filo d’acqua …

La prossima volta."

La cascata cui si riferisce Michele, è una 70 metri, che abbiamo dovuto scendere con due corde da 50 metri, frazionando e recuperando in parete, appesi come due salami: non è stato proprio il massimo!

(Continua)


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